Il Casentino

Come definire in poche parole il Casentino?

 

C’è chi ha proposto di chiamarlo la  “Valle dello Spirito” e come dargli torto? Sono innumerevoli gli edifici religiosi sparsi nel territorio:

parlano di Dio i monasteri come Camaldoli, i conventi come quello francescano della Verna, le badie vallombrosane come San Fedele di Poppi, i santuari, le pievi romaniche, le semplici priorie e le cappelle.

I campi sono disseminati di croci, mèta delle rogazioni con cui si implorava l’aiuto celeste sui seminati.

Non meno numerose – ai bordi delle strade – le edicole con l’immagine della Madonna e dei Santi, ingaggiati a tempo pieno dietro ricompensa di un fiore.

 

Qualcuno ha preferito dare risalto alle foreste di Camaldoli, di Campigna, di Badia Prataglia, le più vaste d’Italia. Le piantate di abeti si alternano con i boschi di faggi, di castagni e d’infinite altre specie vegetali. Tutti questi alberi imponenti e le piante fruttifere, i folti cespigli e le umili erbe dei prati giustificano appieno il titolo di “Valle Verde” attribuito al Casentino.

 

I turisti restano colpiti dallo spettacolo dei castelli, delle torri, dei borghi fortificati che dalle alture strategiche dominano il territorio. La loro importanza è fuori discussione. Pur avendo una storia già ricca prima del Mille, il Casentino ha acquisito i caratteri che lo distinguono ancora oggi ne Medioevo, in particolare nella fase dell’incastellamento. Merita perciò anche l’epiteto di “Valle dei Guidi”, benché i monaci e i Vescovi aretini abbiano conteso ai conti Guidi il titolo di “domini loci”, prima che arrivasse Firenze (nei secoli XIV-XV) a mettere tutti d’accordo.

 

Non sbagliano neppure quanti ripiegano sul vecchio nome “Alta Valle dell’Arno”. è infatti il “fiume dal letto infossato”, nato dal Falterona, a plasòare il Casentino, grazie ai torrenti che allegramente confluiscono nelle sue acque attraverso i mille fossi, veri capolavori della natura.

 

Lo intuì Dante Alighieri, che in bocca a Mastro Adamo ha messo i famosi versi:

Li ruscelletti che di’ verdi colli

del Casentin discendon giuso in Arno

facendo i lor canali freddi e molli

sempre mi stanno innanzi….

 

 

E questa è l’immagine che si portano dentro i casentinesi costretti a vivere lontano dalla loro valle: un’immagine carica di nostalgia.

Le costruzioni risalenti alle più diverse età e distribuite su tutto il Casentino, fino a quote elevate, sono innumerevoli. Anche limitandoci a ricordare quelle che resistono alle ingiurie del tempo e degli uomini in forme significative, l’elenco non si presenta affatto esiguo.

 

Le pievi romaniche

Fra le tracce del periodo romanico emergono le grandi pievi, situate sulle principali strade medioevali. Partendo da sud e procedendo verso nord, cioè risalendo l’Arno, s’incontrano:

Pieve a Socana, non lontana da Rassina. La località è diventata famosa perché ha accolto diversi culti legati fra loro in una sequenza fantastica. Il primo culto è attestato dal grande altare etrusco in pietra arenaria (m 5 × 3,75 × 1), costruito nel V secolo a. C. sulla terrazza rivolta a est. In direzione opposta si è sviluppata, fra il XII e il XIV secolo, la pieve di Sant’Antonino.

San Martino a Vado venne costruita presso il guado del Solano nel secolo XII. Pregevoli in particolare i capitelli delle sue colonne con i motivi tratti dal mondo vegetale, animale e umano: motivi ricorrenti in tutte le pievi, ma qui raffigurati con una rudezza che ne accresce la forza espressiva.

Santa Maria Assunta di Montemignaio sorse, sempre nel secolo XII, su una delle antiche vie che conducevano al passo della Consuma e a Vallombrosa.

 

San Pietro a Romena fu fondata, come si legge nel primo capitello a sinistra dell’entrata, tempore famis, cioè in tempo di carestia, nell’anno 1152. Per la perfezione con cui è lavorata la pietra, soprattutto nell’abside, resta forse la testimonianza più interessante dell’abilità dei Maestri Comacini.

 

 

Santa Maria Assunta di Stia risale al secolo XII, ma è stata molto rimaneggiata nel corso dei secoli. Oggi la arricchiscono opere pittoriche di grande rilievo, e le fa da corona Piazza Tanucci, uno degli spazi più suggestivi dei borghi casentinesi.

 

Monasteri e conventi

I principali risalgono a un’epoca precedente a quella in cui sorsero le pievi. Imponenti sono i ruderi di Santa Trinita in Alpe, a quasi 1000 metri sopra Talla, sulle pendici sud-orientali di Monte Lori. Il monastero venne fondato per volontà di Ottone I di Sassonia nel secolo X. Di poco posteriore è San Fedele a Strumi, costruito a nord di Poppi, per iniziativa della famiglia comitale dei Guidi. Affidati inizialmente ai benedettini cluniacensi, i due monasteri passarono presto ai vallombrosani. Furono proprio i figli di san Giovanni Gualberto a trasferire, seguendo verso la fine del secolo XII i loro patroni, il monastero di San Fedele sull’estremità settentrionale del colle di Poppi. Qui la grande chiesa monastica, tuttora molto frequentata specialmente dai devoti del Beato Torello, si è arricchita di preziose testimonianze della pittura toscana compresa fra il XIII e il XVIII secolo.

Alla fine del primo millennio risale anche la fondazione del monastero benedettino di Badia Prataglia, edificato sull’attuale strada che sale da Soci al Passo Mandrioli. Divenuta parrocchiale, la chiesa monastica è tuttora attiva. Il presbitero si eleva alto su una cripta che contiene tracce significative della dominazione longobarda.

Ancor più vivi e frequentati, all’interno delle foreste storiche casentinesi, su un antico sentiero che congiungeva il Casentino alla Romagna, l’Eremo di Camaldoli (1105 metri s.l.m.) e il Monastero omonimo (300 metri più in basso). Rappresentano da soli tanta parte della storia dell’Alta Valle dell’Arno, da quando, all’inizio del secolo XI, san Romualdo li fondò, coll’intento di congiungere la vita contemplativa con la vita attiva. Il Codice forestale camaldolese rimane un documento straordinario che anticipa temi di grande attualità, come quello relativo allo sfruttamento “sostenibile” delle risorse naturali.

Centro della spiritualità francescana rimane il Sacro Monte della Verna, in cui il “poverello di Assisi” ricevette le stimmate nell’anno 1224. La memoria di san Francesco rivive nel groviglio dei massi al cui interno volle trascorrere in letizia periodi di dura penitenza, piuttosto che nella basilica costruita con il contributo della fiorentina Arte della Lana, e divenuta fra l’altro famosa per alcuni capolavori dei Della Robbia, disseminati per la verità in diversi ambienti dell’insigne convento: dalla piccola chiesa di Santa Maria degli Angeli alla Cappella delle Stimmate.

Importanti per il loro legame con la famiglia comitale dei Guidi e con l’ordine camaldolese i monasteri di Santa Maria a Poppiena, detta per antonomasia la Badia, e il Monastero di San Giovanni Evangelista, fondati rispettivamente nei secoli XI e XII nel territorio di Pratovecchio. Più recente (risale al Cinquecento) il convento delle domenicane intitolato a Santa Maria della Neve.

Proprio accanto a questi luoghi sacri, al centro di Pratovecchio, sorge il Palazzo Vigiani, oggi sede del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona, Campigna.

 

Santuari Mariani

I più importanti sono due, collegati dalla somiglianza strutturale, che rinvia al periodo della loro costruzione nelle attuali forme, cioè alla fase matura dell’Umanesimo. Grazie alla loro esistenza, anche l’alta valle dell’Arno, in cui prevalgono di gran lunga gli edifici di stile romanico, può offrire almeno due esempi pregevoli dell’architettura religiosa del Quattrocento.

Il primo santuario è intitolato a Santa Maria del Sasso. è stato costruito a oriente di Bibbiena per ricordare l’apparizione della Madonna alla fanciulla Caterina, scesa a lavare i panni nel torrente Vessa. Era il 23 giugno 1347. Poco più di un secolo dopo la chiesa fu distrutta da un incendio. furono l’interessamento di Gerolamo Savonarola e l’aiuto finanziario di alcune casate di Bibbiena e di Firenze, a rendere possibile la ricostruzione del santuario su progetto, sembra, di Giuliano da Maiano. Accanto alla Madonna con Bambino, affrescata probabilmente da Bicci di Lorenzo su una vela di muro costruita sopra il “sasso” dell’apparizione, si possono ammirare opere di Jacopo Ligozzi, di Fra’ Paolino da Pistoia e dei Della Robbia.

L’altro santuario è noto con il nome di Santa Maria delle Grazie. Sorge alcuni chilometri sopra Stia sulla strada che conduce al valico di Croce a Mori. Ricorda l’apparizione di Maria a monna Giovanna, avvenuta il 20 maggio 1428. La semplice contadina trovò la forza di convincere clero e popolo a costruire un oratorio che si affacciava sull’Arno, sgorgato poco sopra sui fianchi occidentali del Monte Falterona. Quando un incendio lo distrusse completamente, la gente del posto, sostenuta dall’opera della fiorentina Santa Maria Nova, s’impegnò a ricostruirlo secondo i canoni di armoniosa e nobile bellezza allora in uso. Il nuovo edificio fu consacrato nel 1490. Qualche anno dopo vennero modellate dai Della Robbia e dai loro discepoli le terracotte policrome del presbiterio e l’Annunciazione dell’altare laterale.

 

I borghi e i castelli

La notizia tramandata dal Villani, secondo cui dopo la battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) i guelfi fiorentini distrussero oltre 40 castelli dei ghibellini alleati con Arezzo, induce a immaginare il territorio casentinese presidiato da innumerevoli torri fortificate. Di esse rimangono le memorie in molti ruderi oggi completamente nascosti da un’arruffata vegetazione spontanea, ma anche in costruzioni tuttora imponenti.

Limitandoci a queste, ricordiamo che alla prima fase dell’incastellamento, cioè al periodo anteriore al 1050, appartengono Castel Castagnaio, Porciano, Romena e Bibbiena. Romena è oggi il castello che caratterizza l’alto Casentino con le sue tre torri ancora svettanti in cima alle “coste” e con le sue diverse cinte murarie. Qui d’altra parte Dante Alighieri ha collocato l’episodio del falsario mastro Adamo, che per conto dei fratelli Guido, Alessandro e Aghinolfo, conti della famiglia Guidi, accettò di coniare il fiorino con «tre carati di mondiglia». La condanna al rogo dell’abile artigiano riflette gli usi e i costumi del secolo XIII meglio di tante testimonianze scritte.

Alla terza fase dell’incastellamento, che si colloca cronologicamente nella seconda metà del secolo XII, appartengono Castel San Niccolò, sopra Strada, e il castello di Poppi, senza dubbio il meglio conservato anche perché, dopo la cacciata del conte Francesco Guidi (1440), è rimasto per secoli la sede del vicario fiorentino. è sicuramente questo castello, con il magnifico borgo, costruito ai suoi piedi, che conviene visitare per avere un’idea di un mondo che ci portiamo dentro magari in maniera inconsapevole.

Un altro borgo suggestivo, ricostruito con evidente amore verso le passate generazioni capaci di vivere in simbiosi con i monti e i boschi soprattutto di castagni, è Raggiolo, aggrappato sul crinale compreso fra i torrenti Teggina e Barbozzaia le cui acque, sempre abbondanti, scendono allegramente da Poggio Masserecci.

Del Castello di Pratovecchio, in particolare dei lati orientali e meridionali, rimangono due testimonianze che, adattate alle nuove esigenze, sono tuttora presenti nella vita del paese: il Teatro degli Antei e la Sala del Podestà, così chiamata perché sede dell’autorità (il Podestà appunto), a cui era affidata l’amministrazione della parte più alta del Casentino, ossia dei popoli che facevano capo a Stia e a Pratovecchio. Qui abitò Dante Alighieri, accolto da Guido Selvatico di Dovadola e dalla moglie Manentessa, dopo la sua condanna all’esilio. Nell’Epistola IV indirizzata a Moroello Malaspina, il divino Poeta caratterizza la località da cui scrive come «prossima alla corrente dell’Arno», «in mezzo all’alpi», ossia al centro di un’alta catena di monti. Non si potrebbe definire meglio la parte più antica di Pratovecchio, il borgo che effettivamente sorge in prossimità dell’Arno ancora spumeggiante e chiaro, al centro dell’ampia conca delimitata dal Falterona, dalla Giogana, dalla Verna, dall’Alpe di Catenaia e dal Pratomagno.

Francesco Pasetto